Quella di Veneno non è semplicemente una storia, è – in fin dei conti – tutte “quelle” storie. Quella di Cristina Ortiz Rodríguez innanzitutto, ma non solo.
Facciamo un passo indietro.
Spagna, 1996: in un talk della seconda serata di Telecinco (Esta Noche Cruzamos el Mississippi) fa il suo esordio televisivo la Veneno: prostituta transessuale, sboccata, bellissima. Nasce una star. La Spagna la ama, l’audience si alza: per lei è il riscatto da una vita in fuga. In fuga dalla provincia bigotta, da una famiglia che non la ama, dalla miseria. Forse per la prima volta in vita sua, gli applausi del pubblico, la fanno sentire veramente amata. Ovviamente è un grandissimo errore.
Un altro passo indietro.
Nella spagna post-franchista, libera dalla censura di regime, prende il via una rivoluzione culturale, la Transición española. Vicente Aranda nel ‘77 gira Cambio de sexo, film con Bibi Andersen, attrice transgender che diventa musa e icona di Pedro Almodóvar, vate assoluto della movida madrilena. La capitale diventa un motore propulsore per la creatività e la liberazione dei costumi: cinema e musica sono veicoli per disintegrare anni di tabù e repressioni. Dalla fine degli anni ‘70 Susana Estrada diventa il simbolo di questa “transizione”: film erotici, canzoni piccanti, fotografie esplicite, la liberazione sessuale viaggia alla velocità della luce.
Eppure, nonostante il sesso, l’omosessualità e la transessualità ormai da quasi due decenni vivano “tranquillamente” al cinema e nella cultura visuale spagnola (prima underground e via via sempre più mainstream), l’apparizione sul piccolo schermo della Veneno è qualcosa di diverso, di nuovo, di oltraggioso: non è un’artista. In TV (che al contrario del cinema è un oggetto domestico, familiare) trova posto una prostituta di strada che parla di sé stessa, e in breve tempo la sua vita diventa un proto reality. Sua madre – che mai ha accettato l’identità della figlia – viene invitata in trasmissione, volano parole grosse, Cristina è un fiume in piena, l’audience si alza.
Quello che la Veneno ancora non sa però è che lo spettacolo preferito del pubblico è gustarsi la caduta dei propri idoli. La gente ama la Veneno, ma non la rispetta. Chiuso il programma che l’ha resa un’icona seguono anni difficili. L’epilogo è tragico.
La serie di Javier Ambrossi e Javier Calvo (quelli di Paquita Salas, su Netflix) mette in scena un melodramma larger than life, totalizzante: è triste, euforico, violento, esplicito, non risparmia colpi bassi – tutti assestati alla perfezione. Gli 8 episodi ricostruiscono la vita di Cristina la Veneno sviluppando ogni puntata un nucleo tematico, mescolando i piani della rappresentazione e della narrazione: passato e presente dialogano in un incastro costruito alla perfezione. Impressionante il lavoro sulle e delle tre attrici che hanno interpretato Cristina: Jedet (nei primi anni di transizione), Daniela Santiago (giovane, esplosiva e furibonda) e Isabel Torres (sfatta, invecchiata a sconfitta).
La regia e la sceneggiatura sono piene di idee, di vita; non c’è nulla fuori posto, il racconto fugge della mera biografia e espande i suoi confini verso il romanzo storico: immortala epoche diverse che cedono il passo, una dopo l’altra, a qualcosa di nuovo, di giovane.
Veneno riflette su come i mass media rappresentano un confine: ciò che appare c’è, è lecito, può essere ammirato, denigrato o discusso, ma esiste e ha in sé la dignità di ciò che può apparire; è il confine tra cosa è legittimo e cosa no.
La Veneno irrompendo nel piccolo schermo della Spagna anni ‘90 legittima l’esistenza delle persone transessuali al di fuori dell’alibi artistico e intellettuale, al di fuori della politica e dell’attivismo. Lei è unica, è una scheggia impazzita, ma la sua è una vita come tante.
Ma la serie racconta anche altre storie: c’è quella di Valeria Vegas (anche la sua una storia vera), studentessa transgender che ha nella Veneno il suo idolo assoluto. Quando riesce finalmente a conoscerla decide di scrivere un libro sulla vita, ‘¡Digo! Ni puta ni santa’.
Ed è qui che inizia la serie.
Questo incontro cambia la vita di Valeria, che grazie all’amicizia con Cristina fa chiarezza sulla propria identità e trova il coraggio di essere sé stessa. Scrivere le memorie della Veneno però si rivela più complicato del previsto: cosa è vero e cosa no di quello che le sta raccontando? Quanta la vita e quanto il racconto? Dall’infanzia nella provincialissima Adria, in Andalusia, ai riflettori che fanno di lei una star, fino a una spirale autodistruttiva alimentata da rimpianti, risentimenti e paure, quello sui passi della Veneno diventa per Valeria – e per lo spettatore – un viaggio universale, alla scoperta del lato umano di un’icona controversa, spesso contestata e ritenuta problematica dagli stessi attivisti LGBTQ+ (troppo trash, distante dal movimento per i diritti civili, dalla nuove generazioni, dalla nuova sensibilità).
Quello di Paca “La Piraña”, poi, è un personaggio meraviglioso, la migliore amica della Venone, ferita e tradita a morte per pura vanità, interpretato divinamente dalla stessa Paca “La Piraña” – in un perfetto cortocircuito di quella cosa dell’arte che imita la vita e la vita che imita l’arte.
Veneno – attraverso un intreccio corale in cui vengono indagati i significati di famiglia, la natura dell’amore e le radici dalla paura – metta in scena la potenza e l’importanza del “racconto”, la capacità di costruire e di riappropriarsi delle proprie storie, delle proprie fragilità e della propria identità attraverso le parole che scegliamo per noi stessi.